La mia vita è uno zoo (2011)

Written by tmdb11092951 on September 23, 2014

Può capitare qualche volta che una sequenza sola definisca il destino di un film. Nella cassiera nera in conversazione col protagonista di Matt Damon c'è il senso di La mia vita è uno zoo e probabilmente del cinema tutto di Cameron Crowe. Un cinema che si perde e si ritrova sempre, un cinema con due anime, una dolce e una amara, un cinema colpevole di cuore e abitato da 'perdenti' pieni di grazia. Come Drew Baylor in Elizabethtown, che deve fare fronte a un lutto e a un fiasco, come Benjamin Mee, che deve gestire un lutto (di nuovo) e una paternità. Ispirato a una storia vera e al romanzo che l'ha raccontata ("We bought a Zoo"), La mia vita è uno zoo è un percorso di risalita e insieme una parabola filosofica sul comportamento umano. Perché al centro della filmografia del regista americano ci sono sempre le persone, quelle che fanno la differenza scattandoti una foto ideale o incoraggiandoti dietro la cassa di un supermercato, quelle che spostano più avanti, oltre il dolore e l'assenza, quelle per cui è più importante essere, quelle che si può sempre ricominciare da capo, quelle che ritrovano l'ispirazione e con quella la rigenerazione. Se ieri era il quieto volto di Orlando Bloom a risalire l'infelicità fino al cuore del Midwest e di una hostess splendente nel primo vero sorriso di Elizabethtown, oggi è Matt Damon a osservare smarrito quel se stesso raddoppiato, frantumato e rimandato dallo specchietto retrovisore di un'auto familiare, di una vetrina, di uno schermo, di una lente. La mia vita è uno zoo diventa per l'attore il campo di una performance rilevante e di uno sbalorditivo controllo comico del pathos: una maschera che per quanto stravolta non provoca dolore ed è disposta a incrinarsi nel solo epifanico momento in cui i ricordi si concretizzano, desiderati con sentimento infantile ma acquietati da un impossibile 'ritorno a casa'. Impossibile perché il nuovo film di Cameron racconta la vita 'dopo', quando la persona che ami se n'è andata ma tutto ancora parla di lei. E allora bisogna cambiare casa, cambiare città, cercare altrove ma per quanto ci si sposti, ci si muova, ci si trascini fuori, dentro si è come prigionieri di un incantesimo, chiusi in un lutto, in un momento immobile, unico, irripetibile per chi resta e per chi guarda. In un film di formazione, che forma un figlio e matura un padre, Crowe (ri)mette in schermo la sofferenza più intima e meno tangibile e gira intorno alla medesima e inesorabile domanda: si può sopportare la perdita? Presumibilmente non si può ma evidentemente si deve e così il protagonista, alla maniera del padre vedovo di Clooney nel paradiso amaro delle Hawaii, compie un viaggio alla ricerca di una geografia ambientale che risani quella interiore, lontano dalle stanze vuote del dramma e dagli infiniti spazi dell'assenza. Con La mia vita è uno zoo e attraverso la battuta conclusiva della Lily di Elle Fanning, Cameron Crowe ribadisce che nulla è più avvincente di un essere umano e delle relazioni umane. Le note di Jónsi dei Sigur Ros accompagnano allora un sistema solare del dolore contiguo e successivo a quello di Elizabethtown: una grande sofferenza al centro, intorno a cui orbitano anime belle e riparatrici che fanno ogni giorno migliore.